Il gender, quella teoria che non c’è

20 Ott. 2025

di Eva Benelli
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Ma che sia anche un po’ colpa nostra? Noi che condividiamo un approccio scientifico al mondo, che crediamo nella verità delle evidenze (ma sì, con tutti i limiti e gli aspetti discutibili e su cui si discute), insomma, noi che cerchiamo di promuovere le decisioni prese sulla base dei dati, con tutti gli strumenti razionali e ragionevoli di cui disponiamo, non è che abbiamo lasciato crescere e diffondersi quella inesistente “teoria del gender” che ormai anche in Italia, è lo spauracchio che compare ogni volta che si deve affrontare il tema della sessualità delle persone più giovani?

Ci siamo limitati a sorridere, magari a scuotere la testa durante una cena con amici e amiche, lasciando che quella sorta di gas puzzolente penetrasse negli spazi liberi dell’educazione e dei percorsi di crescita delle persone giovani. «Non vogliamo che i nostri figli siano esposti alla teoria del gender» è il grido di battaglia, forse in omaggio alle antiche teorie dei miasmi come fonti di contagio. Così, in assenza di un qualsiasi dato o evidenza scientifica, in una certa narrazione si è andata affermando questa duplice equazione: che affrontare il tema della sessualità a scuola sia solo una veloce scorciatoia per promuovere i dubbi sull’identità di genere e che basti parlarne perché le persone adolescenti (e dio non voglia, i bambini) precipitino immediatamente in un gorgo di incertezze.

Così, al Ddl che il ministro Valditara ha predisposto e che richiede che le famiglie autorizzino la partecipazione dei figli ai momenti di educazione sessuale (e non è chiaro se basti un solo parere contrario per bloccare tutto) si è aggiunto un emendamento della Lega che comunque esclude da qualsiasi percorso non solo le elementari, ma anche medie inferiori.

 

Le evidenze negate

Non che sia mai stato facile introdurre in forma curriculare l’educazione sessuale e affettiva nella scuola italiana, ancora oggi il nostro Paese è uno dei pochi Stati membri dell’Unione europea in cui non è obbligatoria, insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania. E questo a dispetto delle tante proposte di legge che ci hanno provato, la più antica delle quali risale al lontano 1975.

Quasi vent’anni dopo, nel 1994, la Conferenza Onu sulla popolazione e lo sviluppo al Cairo ha visto 179 Stati d’accordo sul fatto che fosse necessario istituire nelle scuole programmi di educazione sessuale precoci e adeguati alle diverse età. Ma anche questa presa di posizione quasi universale non è bastata a scuotere la riluttanza italiana. Non che non si sia mai fatto niente, ma i programmi e gli interventi sono stati magari numerosi, ma estemporanei.

A maggio dello scorso anno un nuovo tentativo: il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Gruppo CRC) ha pubblicato il documento “Educazione all’affettività e alla sessualità: perché è importante introdurre la Comprehensive Sexuality Education nelle scuole italiane”, per sollecitare il Parlamento ad approvare finalmente una legge aggiornata e rispettosa delle Linee guida UNESCO e degli standard OMS. «Quattro sono i pilastri del modello di educazione sessuale e effettiva proposto dall’UNESCO: un approccio olistico alla sessualità, che comprenda l’ambito fisico, emotivo, cognitivo e sociale; la precocità degli interventi, fin dalle prime età della vita, che lasciano una traccia profonda dentro di noi; il coinvolgimento dell’intera comunità educante e della rete dei servizi territoriali; infine l’universalismo, cioè un contesto inclusivo che offra a tutti e tutte le risorse per emanciparsi, realizzarsi e svilupparsi», sottolineano gli esperti del gruppo CRC.

Ancora una volta nulla di fatto, anzi, il Ddl Valditara procede esattamente nella direzione opposta: con l’alibi di opporsi ai «tentativi di indottrinamento delle teorie gender» (!) svuota completamente di senso l’offerta di un percorso educativo a una sessualità gioiosa, consapevole e portatrice di rispetto tra le persone e i generi.

Impegno e autotutela

«Ho due figli adolescenti: a casa mi fanno domande su corpi, emozioni, relazioni, consenso. Vorrei che la scuola fosse un luogo dove queste questioni vengono affrontate con competenza e delicatezza. Invece sono ancora un tabù». È una delle testimonianze raccolte dalla rete Educare alle differenze e raccontate da Maria Cristina Valsecchi su Scienza in rete. L’associazione ha realizzato un manuale di autotutela per gli insegnanti che intendano comunque opporre resistenza, nel pieno rispetto della legge, alla deriva sempre più oscurantista contro l’educazione sessuale e affettiva a scuola. Insegnanti che, tra le altre cose, si sentono umiliati dall’indicazione contenuta nel Ddl Valditara sulla necessità di ottenere l’approvazione delle famiglie per quello che, nei fatti, dovrebbe essere il loro lavoro. «La scuola non dovrebbe chiedere permesso per educare», ha commentato Viola Ardone su la Stampa del 18 ottobre.

Torniamo alla cronaca: l’approvazione dell’emendamento della Lega per escludere adolescenti delle medie inferiori dai programmi di educazione sessuo-affettiva, è giunta in concomitanza con l’ennesimo femminicidio, così il clamore che si è sollevato sembra che potrebbe portare infine la maggioranza a respingerlo. Comunque finisca, rimane evidente che decisioni prese ignorando le raccomandazioni delle agenzie internazionali e le evidenze scientifiche possono fare del male, soprattutto a ragazze e ragazzi nella fase forse più delicata della propria vita. Come per la legge 40, come per la discussione sul fine vita, un diritto che ignora la vita delle persone è un diritto pericoloso.

Contro l’ignoranza nel merito e nel metodo assurta a scelta ideologica, dobbiamo ritrovare tutti la nostra anima militante.