La pace è un territorio disabitato?

Per le prime vittime del massacro di Gaza, bambine e bambini, la pace è perfino difficile da immaginare. La retorica bellica è frequente e facile, del resto. Proprio per questo, gli sforzi della comunicazione e dell’educazione si devono concentrare sulla costruzione di una “retorica della pace”, creata con parole in grado di descriverla e prospettarla, che siano altrettanto convincenti e, soprattutto, reali.

19 Mag. 2025

di Eva Benelli
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“La guerra e la pace”, disegno di un bambino di una scuola romana, in occasione dell’evento “Il cronico trauma della guerra” organizzato da Zadig e dal Circolo Gianni Bosio alla Casa della memoria e della storia di Roma il 13 maggio 2025.

 

Qualcosa sembra che stia cambiando nel racconto del massacro di Gaza. La strage dei bambini (e delle loro famiglie), le intenzioni esplicite di deportazione dei sopravvissuti, oltre un milione di persone, verso non si da dove (improbabili le destinazioni indicate), soprattutto l’aumento della consapevolezza che quello cui stiamo assistendo è un genocidio, cominciano ad affacciarsi anche nei resoconti di alcuni dei cosiddetti media generalisti. Non senza strappi: per esempio quello che il 17 maggio ha visto contrapposti l’Unione europea di radiodiffusione e la radiotelevisione pubblica spagnola RTVE, che ha fatto precedere l’inizio della finale dell’Eurovision Song Contest da un video di 16 secondi con una scritta bianca su sfondo nero: «Di fronte ai diritti umani, il silenzio non è un’opzione. Pace e giustizia per la Palestina», guadagnandosi così un ammonimento ufficiale.

Un moltiplicarsi di iniziative che lascia sperare

Ma più ancora che la nuova attenzione dei tanti media (non tutti) finora rimasti silenti e assenti su quel che succede a Gaza, è il moltiplicarsi delle iniziative che lascia sperare in un cambio di passo. Solo per citarne alcune delle più recenti, la campagna “9 maggio: ultimo giorno di Gaza”, lanciata da un gruppo di intellettuali tra cui Paola Caridi e Tomaso Montanari, per affermare proprio nel giorno dedicato all’Europa che se noi cittadini, se noi Europa non facciamo niente Gaza muore, ha avuto un successo travolgente (inatteso?), offrendo alle persone che vivono la frustrazione di poter incidere ben poco almeno l’occasione per dirsi presenti. Per metterci la faccia, la propria disponibilità e la propria emozione.

E visto che siamo giornalisti e ci occupiamo di comunicazione, è importante segnalare la decisione (largamente condivisa) della giuria del Premio letterario internazionale dedicato a Tiziano Terzani di dedicare il Premio alla memoria delle giornaliste e dei giornalisti palestinesi uccisi a Gaza a partire dal 7 ottobre, rinunciando alla scelta di un’opera letteraria.

Una decisione preceduta qualche giorno prima da qualcosa che finora non si era mai visto: il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato per acclamazione una mozione per un’informazione completa sulla Palestina. Dice la motivazione: «In un anno e mezzo di guerra le operazioni israeliane a Gaza hanno causato la morte di oltre 200 giornalisti palestinesi. Si tratta di un massacro senza precedenti nella storia della nostra professione, come dimostrato da un recente studio dell’americana Brown University». Almeno 40 di questi colleghi, ricorda la mozione, sono stati uccisi con in mano gli strumenti della professione: una penna, un microfono, una fotocamera e indossando il giubbotto con la scritta “press“. Chiaramente individuabili, quindi.

«L’esercito israeliano sta cercando di imporre un blackout mediatico a Gaza, mettendo a tacere i testimoni dei crimini di guerra commessi dalle sue truppe, atti denunciati anche da ong internazionali e da organismi delle Nazioni Unite. Il tentativo di ostacolare la libera informazione è evidente anche dal rifiuto del governo israeliano di consentire alla stampa straniera di entrare nella Striscia di Gaza. Come organo di rappresentanza delle giornaliste e dei giornalisti è nostro dovere non restare indifferenti e denunciare tutto questo», continua la mozione.

Costruire le parole per parlare della pace

Il silenzio non è più un’opzione, dunque. Ma se possiamo sperare che questa nuova e sempre più estesa attenzione possa portare a posizioni diverse chi finora se ne era stato zitto: «Al governo israeliano diciamo basta, la reazione c’è stata, ora arriviamo alla pace», ha affermato per esempio il ministro Tajani. È proprio la pace che è difficile da immaginare. Non solo perché la risposta di Netanyahu è stato il lancio della campagna dei “carri di Gedeone”, ma perché la pace è difficile non solo costruirla, ma anche pensarla e rappresentarla. Ce lo fanno vedere molto bene i disegni dei bambini  e delle bambine di una scuola romana, presentati nel corso dell’iniziativa “Il cronico trauma della guerra”, organizzata da Zadig e dal Circolo Gianni Bosio alla Casa della memoria e della storia di Roma lo scorso 13 maggio.

La richiesta era di disegnare la guerra e la pace e i disegni sono immediatamente espliciti: la guerra è azione, è piena di fatti che succedono, persone che si sparano, fuochi, esplosioni, case distrutte.  La pace, nella migliore delle ipotesi è un prato fiorito e uccellini che cantano, un arcobaleno, ma le persone non ci sono. Fino all’estremo di un disegno che accosta un fondo rosso riempito di immagini umane con uno azzurro completamente vuoto. Bambini e bambine non riescono a immaginare la pace come spazi popolati di persone che vivono una vita tranquilla, impegnate nelle attività di tutti i giorni: leggere un libro o cucinare il minestrone. Certo, i disegni della guerra riflettono quello che si vede e si sente, ma questo significa che le immagini e i racconti della pace non ci sono: l’immaginario collettivo della pace non è abbastanza alimentato. Non c’è da stupirsi, la retorica bellica è frequente e facile, ma allora è evidente che gli sforzi della comunicazione e dell’educazione si devono concentrare sulla costruzione di una “retorica della pace”, un nuovo discorso che sia altrettanto convincente e, soprattutto, reale. Perché i disegni si popolino di gente in pace.